Tu sei qui

Gli onori perduti

Editore: 
Feltrinelli
Luogo di edizione: 
Milano
Anno: 
2005
Traduttore: 
G. Amaducci, M. Martignoni

Recensione: 

«A New-Bell, che io chiamo anche Cuscus, non ci s’ingombra di metafisica. Si dà l’impressione di lavorare molto ma è assai difficile riuscirci. Alcuni si dedicano a qualche mestiere ridicolo e buttano via il resto della loro esistenza. Li potete vedere seduti su bidoni vuoti o su casse di birra, perduti in discussioni che riguardano le loro condizioni di lavoro, a prendersela con i padroni […] La strada ferrata che corre alla periferia del nostro quartiere e le locomotive a carbone strepitano, Tutuu! Tutuu! Tutuu!, quando passano schiacciano qualche cuscussiano distratto, Crash! E si trascinano dietro un fumo nerastro che contribuisce al nostro più straordinario benessere; il pulviscolo della segheria ai margini di Douala-ville ci ricopre di una sottile polverina che ci fa assomigliare agli Indiani d’America; e poi ci sono gli effluvi della fabbrica di cioccolato che stordiscono, che permettono di sentire sempre odore di cioccolato, di caramelle Ciococam o di teste di moro: ti fanno
passare la fame. Tutto ciò è per spiegarvi che noi non ci lamentiamo. Accettiamo questi minidisagi con la sufficienza dignitosa di chi ha lasciato il villaggio senza rimpianto, e aspetta la grande immersione nelle acque luminose della civiltà».
Queste righe poste in apertura del romanzo della scrittrice francofona camerunese Calixthe Beyala, Gli onori perduti (edito in Italia nel 2003 con Epoché e nel 2005 con Feltrinelli) ne riassumono, sinteticamente, il senso.
Lo sguardo dell’io narrante, Saïda Bénérafa, tratteggia in maniera disincantata, amara e contemporaneamente sarcastico-grottesca la propria vicenda: una donna cresciuta in questo piccolo villaggio del Camerun, rimasta sempre figlia e mai divenuta moglie o madre, emigrata in Francia in tarda età. L’ambientazione si colloca, da un punto di vista temporale, nella seconda metà del Novecento. La narrazione in prima persona induce, quasi automaticamente, ad accostare l’io narrante all’autrice, che presenta di fatto elementi in comune con Saïda: la povertà della famiglia d’origine, la nazionalità camerunese, la migrazione in Francia. Naturalmente il testo presenta elementi di finzione, in molti casi sfioranti la caricatura.
Infatti, la maggior parte dei personaggi presenta tratti – in un certo senso – estremizzati e carichi di eccessi che sfociano nel ridicolo ma che conservano– quasi pirandellianamente – una sfumatura drammatica e desolante. Di fondo rimane la sensazione di vite trascinate, disilluse, senza chances, dagli onori perduti appunto, sia nella parte del romanzo ambientata in Camerun, sia in quella ambientata a Parigi. L’umanità dipinta rimane sempre ai margini, anche quando, magari emigrando, ha raggiunto condizioni di vita migliori; nel caso specifico delle donne, assistiamo al crollo delle illusioni che il mito di un occidente opulento, libertario (e falsamente libertino) aveva presupposto. La loro condizione, sia prima dell’emigrazione che in seguito, rimane comunque con scarse, o nulle, soddisfacenti vie d’uscita. Ciò potrebbe essere letto – anche alla luce della biografia dell’autrice, impegnata nella rivendicazione di istanze in nome del suo popolo – come condanna della condizione di isolamento che circonda l’Africa. Tuttavia il fatalismo e l’arrendevolezza che avvolgono le vicende, l’idea stessa che suggerisce il titolo, che gli onori sono perduti, (forse irrimediabilmente) si scontrano con gli intenti di rivalsa e l’esigenza di cambiamento dichiarati in più occasioni dall’autrice stessa. Aggiungo quel “forse” in quanto all’altezza dell’epilogo sarà Saïda a spiccare, a modo suo, per la capacità di affrontare con fermezza situazioni drammatiche.
L’autrice si dichiara molto impegnata nella lotta per i diritti delle donne e molto spesso sono proprio figure femminili le protagoniste della sua scrittura; tuttavia, in questo caso, non mi pare si colgano particolari rivendicazioni collettive, né in nome delle donne né in nome degli immigrati in Francia; vi sono delle allusioni beffarde ai francesi nella loro veste di (ex)colonizzatori ma fondamentalmente l’impostazione della vicenda si gioca su un piano individuale.
Da un punto di vista linguistico, sebbene il testo si legga in traduzione, c’è il tributo della scrittrice alla sua madrelingua mediante l’inserimento di numerosi termini, che, nonostante il glossario finale, si collocano nel discorso permettendo agevolmente la deduzione del significato, in un’operazione che li rende comuni ed annulla quei tratti marcatamente esotici in cui spesso scelte di questo tipo scivolano.

Autore della recensione: 
Silvia Camilotti