Tu sei qui

Non dirmi che hai paura

Editore: 
Feltrinelli
Luogo di edizione: 
Milano
Anno: 
2014


Recensione: 

"Ultimi a nascere, le nostre madri hanno covato noi mentre i clan covavano la guerra, nostra sorella maggiore, come ci hanno sempre detto mamma e papà. Una sorella cattiva, ma pur sempre qualcuno che ti conosce alla perfezione, che sa benissimo quanto è facile farti felice o triste" (p. 11). Queste righe, in cui incappiamo a poche pagine dall'inizio del romanzo, precipitano subito chi legge in medias res, in una realtà in cui l'efficace metafora della personificazione della guerra in Somalia illustra come essa sia diventata parte sostanziale della vita dei protagonisti e, extra testo, dei somali tutti. Sullo sfondo di un conflitto ventennale che ha di fatto cancellato un paese - che è stata una colonia italiana come nel testo si ricorda in alcuni passaggi - si snoda la vicenda di Samia, che al pari di quella di altri e altre giovani della sua generazione, nati negli anni Novanta, non prescinde dalla guerra e dunque dalle restrizioni e dai lutti che essa porta con sé. Catozzella ha dato voce alla storia - per certi versi d'eccezione, per altri comune a centinaia di migliaia di persone - di questa giovane cresciuta a Mogadiscio, tenace e coraggiosa ("io lo so da quando ancora non parlavo bene che un giorno sarò una campionessa", p. 13), che vede nella corsa la chiave di svolta della sua vita e di chi le sta intorno. La corsa diventa infatti per Samia il sostituto di un'infanzia e di una normalità rubate dalla guerra: "noi avevamo fatto finta di essere bambini normali, di quelli che non pensano a niente e sanno giocare. [...] La guerra mi ha portato via il mare. Però, in compenso, mi ha fatto venire voglia di correre. Perché grande come il mare è la mia voglia di andare. La corsa è il mio mare" (pp. 15-16). La corsa diventa anche simbolo di un'emancipazione collettiva tutta femminile: "se davvero ci credi, allora un giorno guiderai la liberazione delle donne somale dalla schiavitù in cui gli uomini le hanno poste. Sarai la loro piccola guida, piccola guerriera mia" (p. 48); una guerriera, però, senza armi che con la sua sola corsa guiderà "la riscossa delle donne islamiche" (p. 103). Samia infatti vive sulla sua pelle le progressive restrizioni alla libertà, che si misurano tramite il divieto di indossare veli colorati tradizionali (quelli che orgogliosamente ha portato il giorno del matrimonio di sua sorella) sostituiti dal burqua nero, e di andare in biblioteca o al cinema, la cui chiusura, nella sua ingenua ma oggettiva interpretazione, è dovuta al fatto che "creava e alimentava i sogni" (p.81). Tutti esempi che dimostrano con efficacia gli effetti della guerra sulla quotidianità delle persone e che valorizzano la pluralità di significati che lo sport può acquisire per una persona in condizioni simili. La giovane somala ha la stoffa per vincere, arriva alle olimpiadi di Pechino del 2008 con un "allenatore" suo coetaneo che apprende i consigli da coach dai manuali di atletica trovati nella vecchia biblioteca di Mogadiscio e che poi sparisce dalla vita della ragazza inghiottito dalle fazioni in conflitto. La corsa diventa anche un modo per affrontare con coraggio i lutti e i vuoti che costellano la giovane vita di Samia: Alì il suo amico-allenatore, sua sorella Hodan che prima si sposa e poi parte sola per l'Europa, il suo amatissimo padre che in lei non smette mai di credere. E poi il muro insormontabile che si staglia dinanzi a migliaia di persone nella condizione di Samia: l'impossibilità di movimento oltre i confini del proprio paese. A Samia, dopo Pechino, viene offerta la possibilità di allenarsi "per davvero", con un vero allenatore, che però implica un altro distacco: l'abbandono della Somalia prima per l'Etiopia e poi per fare il salto verso l'Europa e le Olimpiadi di Londra. Tuttavia fuori dai confini somali, Samia sperimenta - ed ecco qui ciò che rende la sua storia rappresentativa di quella di migliaia di persone - la condizione di tahrib, clandestina: come la stragrande maggioranza dei somali, non possiede un passaporto, ad Addis Abeba non può allenarsi come vorrebbe e dopo mesi di attesa inutile, la sua tenacia la spinge a partire per il Viaggio con la V maiuscola: "il Viaggio è una cosa che tutti noi abbiamo in testa fin da quando siamo nati. Ognuno ha amici e parenti che l'hanno fatto, oppure che a loro volta conoscono qualcuno che l'ha fatto. È come una creatura mitologica che può portare alla salvezza o alla morte con la stessa facilità. Nessuno sa quanto può durare. Se si è fortunati due mesi. Se si è sfortunati anche un anno o due" (p. 122). Quasi per scaramanzia, non sembra considerata la terza ipotesi, quella di un Viaggio che non vede il suo compimento, che non contempla un arrivo. Ed è la descrizione del Viaggio che occupa la seconda parte del libro, con quel carico di disumanizzazione e annullamento che inevitabilmente porta con sé. In questo caso testo e extra testo si intrecciano, i confini tra realtà e finzione non sono più definibili perché l'attenzione quasi documentaristica della descrizione dà misura di cosa significhi intraprendere una simile, degradante oltre ogni misura, esperienza. La frontiera tra fiction e storia di vita crolla del tutto oltre l'epilogo, nel paratesto in cui chi legge tocca con mano il muro contro cui i sogni di una giovane somala e - aggiungiamo - di migliaia di persone che partono dalle sponde sud del Mediterraneo, si infrangono.

Autore della recensione: 
Silvia Camilotti