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Carcere

Dov’è Cesare Beccaria?

Riflessioni di alcuni detenuti-studenti presso la casa circondariale di Trento

 

La novità concettuale di Cesare Beccaria è quella di aver tracciato, nell’ambito della giustizia, una linea netta di demarcazione fra diritto e morale, proprio come Galileo prima di lui aveva nettamente distinto il linguaggio della scienza da quello della fede. La “pena”, come viene concepita da Beccaria, non deve più avere il senso di un castigo morale esemplare all’interno di una lotta del bene contro il male, ma deve assumere uno scopo pratico preciso e misurabile: quello di scoraggiare, o almeno di limitare, la propensione al reato. Nel trattato Dei delitti e delle pene (1764), il “fenomeno reato” viene quindi osservato e analizzato, in una nuova ottica scientifica e tutta illuminista, nella pluralità delle sue componenti: quella sociale, è celebre il passo in cui l’autore assume il punto di vista del delinquente per denunciare il sistema che avalla la conservazione delle differenze economiche e politiche; quella della sovranità delle leggi (lo stato), dove “reato” significa l’eccesso di libertà del singolo a scapito della volontà generale contravvenendo al patto sociale che la determina; infine quella dell’economicità del reato e del vantaggio che deriva dal suo compimento. La praticità e l’efficacia del diritto non può quindi prescindere dal misurarsi con questi aspetti, poiché “il fine non è altro che impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Le pene dunque e il metodo d’infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà un’impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo”.

 

La pena, secondo Beccaria, deve costituire il giusto contrappeso al reato e deve essere applicata secondo il principio della proporzionalità: opportunamente calcolata e misurata nello scarto che intercorre fra il vantaggio che deriva dal compiere un reato e la quantità di “danno” necessaria per annullare quel vantaggio, eliminandone la convenienza. L’arte della pena è un equilibrio di massima efficacia e minima sofferenza. Fuori da questo equilibrio, fuori da questa “scienza della proporzione” c’è solo castigo e violenza fine a se stessa, quella “inutile prodigalità di supplicii che non ha mai resi migliori gli uomini”.

 

Ma dov’è oggi Cesare Beccaria? Quanto è rimasto nella moderna realtà giudiziaria di quest’arte della proporzione che è condizione stessa dell’efficacia della pena?

 

E quanto di quel retaggio morale è invece ancora presente nelle nostre istituzioni, nella somministrazione delle pene e nelle attuali condizioni detentive? La realtà, purtroppo, è che il reato non si finisce mai di scontare: oltre alla pena effettiva a cui si viene condannati, ovvero la restituzione di quella “porzione di libertà” che il reo ha sottratto alla collettività, ci sono tutti quegli effetti collaterali che il moralismo sociale persistente e l’indifferenza politica non sono disposti a considerare o, peggio, che guardano come elementi di un’invisibile ovvietà. C’è l’abnegazione morale a cui spesso il detenuto viene sottoposto, costretto a subire condizioni carcerarie talvolta disumane nella carenza o addirittura nell’assenza di strutture e servizi essenziali; in quel concetto di “estensione della pena”, che spesso significa anni di detenzione, c’è un’opera di costante e inesorabile annullamento della personalità, sottoposta alla quotidiana umiliazione di sottomissione e dipendenza pressoché totali, alla mancanza di riservatezza, al sovraffollamento, alla coabitazione forzata dentro un mondo esclusivamente delinquenziale, all’impossibilità di mantenere rapporti affettivi esterni che inevitabilmente si riversa in modo traumatico anche su famigliari incolpevoli. Altro che “dolcezza della pena”! Condizioni queste che vanno ben oltre quella proporzionalità concepita da Beccaria e che costituiscono una sorta di alone che si allarga attorno alla pena, un surplus di “castigo”, un supplizio che non solo non ha mai reso gli uomini migliori, ma che anzi li abbruttisce, li incattivisce, li rende peggiori di come sono arrivati, come dimostrano le statistiche sull’alto tasso di recidività dei reati.

 

 

E poi c’è l’inedia carceraria, le giornate che scandiscono nella totale assenza di attività, nella speranza e nell’attesa, spesso angosciosa, dell’eventualità di una pena alternativa, come l’affido presso una comunità o la concessione della detenzione domiciliare, che spesso non arrivano per mancanza di strutture o semplicemente per l’eccessiva rigidità del magistrato di sorveglianza: e non sarà che proprio Cesare Beccaria, disponendo quella discrezionalità di giudizio nella ricerca di una giusta proporzione, abbia facilitato, proprio lui, il ritorno di quel retaggio di moralismo che condiziona le decisioni dei giudici spesso così diverse da carcere a carcere per reati uguali? Ma l’immobilità alla quale si è costretti è un vero e proprio furto di tempo, la mutilazione insensata di un pezzo della vita di una persona, perché se è vero che il reato è l’appropriazione indebita di una porzione di libertà collettiva, è vero anche che quella libertà non è concepibile soltanto come tempo, ma è innanzitutto dinamismo (per quanto mal riposto), azione, iniziativa personale che nell’inedia della pena carceraria non è più possibile risarcire. Così in carcere restano reclusi professionisti, tecnici, lavoratori qualificati che potrebbero ripagare la collettività con le loro competenze, restano inattive persone che metterebbero volentieri a diposizione la loro manodopera e le loro abilità per imparare un’attività attraverso l’esperienza lavorativa, e tutto questo viene invece congelato, sprecato in una assurda segregazione di risorse e di energia immobilizzata. Che la nostra società sia incapace a immaginare la pena in modo diverso dalla mera segregazione, è evidente anche dall’edilizia carceraria, perfino nella produzione contemporanea di strutture all’avanguardia nella loro moderna tecnologica freddezza, nella sua ostinata riproposizione di versioni attuali di arcaiche fortezze fatte ancora di bastioni, cortili, camminamenti, settori e sbarre: veri e propri “non luoghi” che, nascosti alla vista, è come non esistessero, come fossero pieni di nulla.

 

 

 

Arriva infine il giorno della conclusione della pena, quando ti dicono che “il debito con la giustizia è definitivamente saldato”, ma con il ritorno in società ci sia accorge che davvero il reato non si sconta mai, perché ci si porta addosso quell’alone, il fardello di quel surplus di “castigo” di cui ormai è quasi impossibile disfarsi. Chi non ha mai avuto un lavoro si trova scaraventato, dopo anni, nella stessa condizione che lo aveva portato a delinquere, come non fosse passato neanche un giorno; chi invece un’attività ce l’aveva, spesso non la ritrova più; e talvolta anche gli affetti più cari risultano compromessi. Il mondo ti guarda con la diffidenza e il pregiudizio con cui si guarda chi viene davvero da chissà quale “non luogo”.

Dov’è Cesare Beccaria? Bella domanda…