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Cibo per l'anima

di Maria Serena Tait

Sono andata a casa di Soheila senza conoscerla, perché avevo bisogno del suo aiuto per montare un video e, prima ancora di metterci al lavoro, mi ha proposto un tè e io ho accettato. Già mentre si avvicinava con la tazza fumante il profumo mi ha fatto intuire che non si trattava di un tè qualunque, ma di un dono speciale: era infatti un tè alle rose ottenuto con l’aggiunta al tè nero di un particolare aroma alle rose di produzione persiana. Ne abbiamo parlato e lei l’ha definito “cibo per l’anima”. La seconda volta che sono andata a casa sua il tè, preceduto dal suo profumo dolce ed esotico, è arrivato senza bisogno di parlarne e mi ha fatto sentire accolta in un mondo che non conoscevo e vicino all’anima di Soheila. Lavorare insieme poi è stato facile e naturale. Ho ripensato spesso alle sue parole e, naturalmente, anche al suo tè e ho cominciato anche a ritrovare ricordi dove il “cibo per l’anima” con tutte le sue valenze di gesto fortemente identitario, ma anche momento di condivisione, scambio e vicinanza tra persone con storie, cultura e provenienze diverse, era stato importante.

 

Avevo 23 anni ed ero a New York per la prima volta. Il motivo ufficiale erano le ricerche per la mia tesi di laurea, ma era stato anche il mio modo di inventarmi un mio personale “Erasmus” ante litteram … Erano tempi in cui il movimento studentesco si nutriva di contatti internazionali che permettevano di sentirsi a casa ovunque e con chiunque condividesse, almeno in parte e in quel modo speciale, giovane e forse un po’ confuso, ideali e speranze. Ero ospite di una ragazza ligure che abitava a New York già da alcuni anni ed aveva sposato un ebreo americano di seconda generazione, figlio di immigrati dall’Europa orientale, che aveva già americanizzato il suo cognome. Un sabato sera fui invitata a cena, con mia grande emozione, a casa dei genitori di lui per condividere un pasto rituale ebraico. Ad un certo punto arrivò in tavola una pietanza che riconobbi senza ombra di dubbio come il “tortel de patate”, piatto ultra tipico trentino che da poco avevo scoperto non essere solo di Mezzocorona, il paese in cui sono nata, ma anche di tutta la zona rotaliana e della Valle di Non. Anche a casa mia non era un semplice piatto ma un vero rito, officiato personalmente dalla mamma, che ammetteva piccole variazioni solo in occasione dei brevi soggiorni a casa nostra dell’altrettanto mitica Signorina Gemma, sarta a domicilio per tutta la famiglia, che pretendeva l’aggiunta di poco latte e farina all’impasto e sedeva con atteggiamento critico a tavola prima di dare con nostro grande sollievo il benestare al risultato. Ritrovarne il sapore a casa di ebrei ortodossi, come cibo rituale, ebbe su di me un effetto deflagrante: volevo ridere (ma non si poteva) e capire, ma sicuramente ci fu un’immediata assimilazione attraverso occhi, naso, bocca e stomaco del concetto di melting pot, un rapido ripasso delle storie di famiglia sui luoghi di provenienza dei trisnonni asburgici, qualche intuizione, da sviluppare con calma, sulla presenza di tanti cognomi e nomi di origine ebraica in Valle di Non e una piacevole euforia per essere parte di tutto questo.

Molti anni dopo, una sera a cena, la badante polacca di mio padre cucinò per noi un piatto tradizionale del suo paese in due varianti, quella classica, con patate crude grattugiate grosse, e quella saporita con cipolle grattugiate mescolate alle patate. Avrete già intuito che si trattava di nuovo del “tortel de patate”, cibo dell’anima della mia infanzia, passaporto del mio personale ingresso in un mondo interculturale e interrazziale e da allora e per sempre pura gioia del palato che ogni volta mi strappa un sorriso di condivisione pura, di consapevolezza di tutti i misteriosi incroci di percorsi di vita e di sangue che mi fanno sentire a casa con il corpo e con l’anima in quello che ho scoperto non essere mai completamente “altrove”.