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Il castello: un anno dentro l'aereporto intercontinentale di Malpensa

Il castello.

Un anno dentro l'aeroporto intercontinentale di Malpensa

di Gracy Pelacani

È notte, notte fonda pare, perché non si scorge presenza umana nelle sale d'aspetto né lungo i corridoi. Accompagna queste prime immagini il suono di un allarme, a cui poi si aggiungerà una voce a confermare che sì, è proprio così, siamo in uno stato d'allarme. Una valigia abbandonata accanto a delle sedie dove qualcuno è stato in attesa di partire o chissà, di un ritorno, ci ricorda che siamo in un luogo di transito di persone. Alla valigia si avvicina con precauzione un uomo con un'ingombrante tuta verde a proteggerlo da una possibile esplosione - è della polizia capiamo dalla divisa - e ci appoggia sopra una coperta. Su questa scorgiamo la scritta “bomb blanket”, coperta per la bomba. L'uomo se ne va e per qualche secondo nulla accade: vi sono ancora le sedie, la coperta, sotto la valigia e, forse, al suo interno una bomba. Lo schermo si fa nero, e sentiamo il suono un'esplosione. C'era davvero, la bomba. C'era davvero? Se è accaduto è stato lontano dai nostri occhi.

Così si apre il film Il castello, di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, uscito nel 2011. Siamo all'aeroporto intercontinentale di Malpensa e, nel tempo del film, finiremo per trascorre al suo interno un anno intero, segnato dallo scorrere delle stagioni.

 

Un sottile senso di ineluttabilità e impotenza inizia a posarsi sui pensieri dello spettatore dall'inizio per non abbandonarlo più fino alla scena finale, come la nebbia mattutina grigia e soffocante che si scorge fuori dalla cabina di comando di un aereo in una delle prime scene, e avvolge ogni cosa.

È inverno, la stagione degli arrivi, ed iniziamo a prendere confidenza con le regole e i ritmi di quel che ci appare essere un altro mondo lontano. Prima le persone in fila al controllo passaporti, poche domande e qualche sguardo ai documenti, ma la fila scorre e i passeggeri scorrono veloci. Fino a qui tutto va bene. Nulla a cui non sia capitato di assistere a chiunque di noi arrivando in aeroporto.

Poi, però, ci vengono mostrati lunghi interrogatori in piccole stanze, e le domande ai passeggeri vanno sempre più a fondo nella loro vita e nelle ragioni che hanno per chiedere di essere autorizzati a varcare il confine italiano. Se prima qualcuno diceva di essere venuto a lavorare, in un qualche modo rimanendo persone prima di ogni altra cosa, ora gli uomini e le donne che rispondono a quelle incessanti domande sembrano solo trasportatori di merci. Non sappiamo se abbiano o no infranto qualche regola, ma è certo che piano piano il dubbio e il sospetto si insinua.

C'è qualcosa che non va, ma non si riesce a dire che cosa sia. Gradualmente la nostra capacità di giudizio, di dire così è troppo, arretra di fronte alla forza del tono con cui i poliziotti spiegano a chi si permette di protestare che stanno solo facendo il loro lavoro.

L'ultimo ad essere interrogato è un ragazzo. Giura di non star portando nulla con sé, ma la radiografia svela che trasporta ovoli pieni di cocaina. È l'evidenza che legittima la pratica del sospetto.  

Primavera, la sicurezza. Il salto dovrebbe farci trasalire, eppure questo non accade quando, invece che persone, al vaglio dei controlli passano scatoloni di aragoste freschissime, pesce e pelli d'animale. Anche loro vengono esaminate, spogliate, interrogate. Il sospetto che si insinua, l'accusa che si rivolge loro è la stessa: nascondere qualcosa. Così l'addetto alla sicurezza controlla chela per chela delle aragoste, e passa il dito lungo le squame del pesce a controllare che siano solo quello che appaiono: merci. Ma questo non riesce a tranquillizzarci, perché ci potrebbe essere un pericolo nascosto, è questo quel che ci dicono, anche tra i luoghi e tra le persone più insospettabili. Così sentiamo due uomini parlare di animali nascosti nel bosco che circonda l'aeroporto che però non vediamo. Ed è sempre contro questo stesso nemico invisibile che vengono addestrati a proteggerci uomini vestiti in tuta mimetica con sullo sfondo gli alberi in fiore e gli uccellini che cantano.

Estate. L'attesa. E quel che fino a prima era un luogo di passaggio, di controlli, ora diviene un piccolo mondo. Per tutta la stagione estiva viviamo accanto a questa signora che ci mostra come la sua è tutto fuorché un'attesa immobile. Lava i panni, cucina, fa la tinta ai capelli e la messa in piega. Prega, guarda gli annunci. I confini non sono più tali, siamo all'aeroporto, ma potremmo essere in un altro luogo là fuori dove la vita prosegue come quella di chiunque altro. E l'attesa, la sua, ci pare eterna.

Autunno. Partenze. Il nostro senso di impotenza è lo stesso che appare sul viso dell'uomo protagonista delle ultime scene. Dopo avergli preso le impronte, averlo schedato, qualcuno parla con lui, cerca di capire la sua storia. Rifiuto del riconoscimento dello stato di rifugiato. Alla fine gli viene chiesto Cosa vuoi fare ora, cosa vuoi? Andare avanti con la mia pratica, risponde. Andare avanti…no! Ti hanno già detto di no.  

 

Ineluttabilità e impotenza dall'inizio fino all'ultima scena. Non c'è nulla che si possa fare, è un mondo, ha le sue regole. Fanno solo il loro lavoro, proteggono dal nemico che non si vede, ma è sempre in agguato e si potrebbe nascondere dove meno ce lo si aspetta. C'è da stare all'erta, da essere dubbiosi, fare domande, indagare la vita delle persone, cosa fanno, dove vanno, perché. C'è da rimandarle indietro se non stanno alle regole, poco importa che non le conoscessero, poco importa se sono o meno giuste. Non c'è nulla che si possa fare, è un mondo, ha le sue regole.

Infine si comprende, poco prima di uscire dalla sala. Siamo all'aeroporto intercontinentale di Malpensa, quel mondo è il nostro, quelle regole contro il nemico servono per proteggere noi. Fanno solo il loro lavoro.