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Io, venditore di elefanti. Una vita per forza tra Dakar, Parigi e Milano

Autore: 
Editore: 
Baldini&Castoldi
Luogo di edizione: 
Milano
Anno: 
1990

Recensione: 

«Come ci si sente da clandestini? Male. Oltretutto si entra in concorrenza con chi sta male quanto noi. Un immigrato deve subire, tacere e subire, perché non ha diritti. Deve reprimere dentro di sé ogni reazione, svuotarsi di ogni personalità. Subire con la consapevolezza che questa è l’unica possibilità». Si leggono queste parole alla terza pagina del romanzo di Pap Khouma, testo autobiografico che narra l’esperienza migratoria dell’autore senegalese in Francia ed in Italia a partire dalla prima metà degli anni Ottanta e che rappresenta il primo esempio della cosiddetta “letteratura della migrazione in lingua italiana”.
Il romanzo è scritto in prima persona e descrive con uno stile lineare, didascalico e quasi documentaristico l’esperienza dell’io narrante. Non a caso si tratta di un testo utilizzato anche in ambito didattico, in quanto funzionale a fornire un’immagine piuttosto aderente alla realtà dell’immigrazione senegalese in Italia. In questo senso il lettore non si imbatterà in virtuosismi retorici o costruzioni linguistiche ibride che fondono lingua madre, lingua della colonizzazione e lingua italiana (elementi spesso ricercati per non dire implicitamente – ed eurocentricamente – pretesi da autori non italofoni che scrivono in lingua italiana) bensì troverà un affresco lucido ed essenziale della condizione di un gruppo di immigrati africani, venditori ambulanti, in Italia.
Lo stile descrittivo, che ad una prima lettura potrebbe apparire neutro e privo di alcuna connotazione, non esclude invece degli elementi di rivendicazione o denuncia. Al testo soggiace un assunto di base, non esplicitamente dichiarato ma non per questo meno evidente: l’insensatezza del parallelismo, sostenuto mediaticamente allora come oggi, che clandestino coincida con criminale. In realtà la clandestinità è una condizione giuridica dalla quale gli stessi immigrati irregolari appena ne hanno la possibilità, si sganciano (ne è prova l’altissimo numero di richieste di emersione presentate in occasione delle “sanatorie”), con la consapevolezza che il rischio di ricadervi è comunque presente e con esso la facilità nel venire cooptati da reti criminali.
I disagi e le difficoltà collegate alla condizione di irregolarità tuttavia – e questo è un punto interessante del testo – non terminano con l’uscita dall’illegalità. Anche se, alla fine, i protagonisti della storia riusciranno ad ottenere l’agognatissimo permesso di soggiorno, questo non tutelerà affatto da altre forme di discriminazione: «perché non riesco ad avere una casa se mi presento con le carte in regola, un posto di lavoro fisso, i soldi in mano? Perché non ho una casa, anche se leggo scritto “Affittasi”? (p.143). Vi è dunque, accanto alla continua denuncia delle condizioni derivanti da una clandestinità di fatto imposta, la lucida consapevolezza che per essere riconosciuti ed avere pari diritti non è sufficiente avere un permesso di soggiorno. Anche se formalmente il razzismo non viene citato, come il curatore stesso commenta nell’introduzione del romanzo, di fatto potremmo dire che è costantemente smascherato. E lo si coglie nelle sue molteplici sfaccettature, che vanno da atteggiamenti di disprezzo nei confronti dei protagonisti al paternalismo assistenziale di qualche italiano, magari anche in buona fede. Un ulteriore elemento, a livello tematico, da rilevare, è il seguente: nonostante l’amarezza, le difficoltà, le condizioni di vita al limite dell’umano, non si spegne mai nell’autore-protagonista la forza di resistere, la tenacia ed il rifiuto a sottomettersi a condizioni di subordinazione.

Autore della recensione: 
Silvia Camilotti