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Lezioni di tenebra

Editore: 
Guanda
Luogo di edizione: 
Parma
Anno: 
2011

Recensione: 

Lezioni di tenebra è il romanzo d'esordio di Janeczek, scritto in italiano e uscito per i tipi Mondadori nel 1997, in cui la scrittrice ripercorre la mancata memoria della Shoah, a cui solo i suoi due genitori sono sopravvissuti, a differenza del resto della famiglia che si è perduta per sempre nei campi di concentramento. Si tratta di una "memoria mancata" perchè Helena, in quanto figlia di sopravvissuti e non testimone diretta, può solo immaginare il significato di quell'esperienza, su cui in famiglia è scesa una coltre di silenzio. Vi è dunque il tema della memoria e della ricostruzione di un passato in tutta la sua drammaticità, ma vi è anche una storia familiare che offre lo spunto per numerose riflessioni sul concetto di appartenenza nazionale e di lingua madre. Il testo evoca continuamente plurime appartenenze, anche linguistiche, e suoni che oscillano tra lo sconosciuto e il familiare. Helena è figlia di ebrei polacchi, ma non parla nè l'yiddish nè il polacco, bensì il tedesco e l'italiano poichè Germania e Italia sono i due paesi in cui ha diviso la sua esistenza. Eppure, si sente dire da sua madre: "Sommo rimprovero, giudizio inappellabile della mia mamma giudice: 'ti comporti da tedesca', da 'yecke', vale a dire da 'crucca', una delle poche parole yiddish che ricorrevano a casa mia. E ancora 'parli come una tedesca' o 'pensi come i tedeschi'. Qualche volta probabilmente usava questa qualifica impropriamente come arma di offesa, ma in generale sono stata educata a distinguere fin nei minimi particolari quel 'noi' da tutto quanto è tedesco, caso per caso, atteggiamento per atteggiamento. (31)
Tale rimprovero è a tal punto interiorizzato che spinge la protagonista ad abbandonare la Germania, di cui conserva però la cittadinanza, rappresentata dal possesso del passaporto che tuttavia la obbliga, per risiedere negli anni Ottanta in Italia, ad avere comunque un permesso di soggiorno, nei confronti del quale nutre una serie di idiosincrasie, per cui vive per anni "da clandestina", senza mai chiarire la sua posizione giuridica e nonostante il matrimonio con un italiano: "Non glielo posso certo spiegare, a quelli lì, che in tutti questi anni non ho fatto il permesso di soggiorno per delle ragioni storiche e familiari che mi spingono a evitare gli uffici della polizia e enti simili. Che cosa mi possono fare?" (42)
Non si tratta solo dunque di una questione amministrativa sospesa, ma di una complessità identitaria resa tale dal passato familiare, dalla decisione di cambiare paese e dal non apparire straniera, e dunque di mimetizzarsi facilmente, a differenza di altri stranieri, nel paese di destinazione, ossia l'Italia. Questa situazione si riflette anche nella confusione linguistica, nel fatto di affermare di possedere una lingua madre che non conosce o di venire chiamata in modi diversi rispetto a quello che dovrebbe essere il suo vero nome. Si rimanda alle citazioni seguenti che esemplificano questi paradossi.

Autore della recensione: 
Silvia Camilotti
Pagine di...: 

La lingua madre: Qualche volta mia madre e mio padre fra loro parlavano in polacco, e io ascoltavo attentissima, sforzandomi di decifrare almeno qualche parola per capire se c'entravo io. Lo yiddish in casa non si parlava, e io l'ho imparato malamente in età adulta, captandolo dai discorsi degli ebrei dell'Est, amici e conoscenti, quasi fosse un dialetto del tedesco. (73)

Io non lo so, il polacco, ma se è facile riesco a capirlo e se è ancora più semplice, ridotto a singole parole o frasi fatte, lo parlo anche, lo parlo quasi tutti i giorni. Sono convinta di avere una lingua madre che non conosco, ma vallo a spiegare a qualcuno. (75)

Il proprio nome "mancato": Nella nostra famiglia i nomi hanno una natura mobile. È per questo che non mi importa che il mio sia diventato Elena, con l'H davanti per chi lo scrive, e muta nel parlato. Io stessa mi chiamo Elena in Italia, Helena in Germania e prontamente in inglese mi pronuncio con la elle ingoiata e l'aspirazione, in francese con l'accento sull'ultima sillaba. Nemmeno mi interessa se a qualcuno il nome Elena non pare abbastanza da straniera e per questo mi chiama Elèna o Heléne o Jelena o in altri modi mai sentiti in casa. Invece mi fa effetto se il mio amico Olek mi apostrofa "Helenka" che in polacco sarebbe il modo più comune per chiamarmi e nessuno ha mai usato. Non mi sono mai chiamata come mi chiamo davvero, non è una cosa grave, si vive tranquilli anche così. (70)