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Un pirata piccolo piccolo

Editore: 
e/o
Luogo di edizione: 
Roma
Anno: 
2011

Recensione: 

Dopo meno di un anno dalla pubblicazione del suo ultimo romanzo, Divorzio all’islamica a Viale Marconi, Amara Lakhous torna in libreria con un Un pirata piccolo piccolo (Roma, e/o, 2011, traduzione dall’arabo e postfazione di Francesco Leggio; introduzione dell’Autore). Il romanzo è infatti la riedizione di Le cimici e il pirata (Roma, Arlem, 1999, traduzione di Francesco Leggio), scritto da Lakhous in arabo nel 1993 ma stampato per la prima volta in Italia ben sei anni dopo. La ragione ce la spiega l’autore stesso nella bella Introduzione, fondamentale per comprendere sia il contesto storico, politico e sociale in cui l’opera nasceva, sia il suo esilio volontario durante gli anni più bui della dittatura algerina, quando ogni possibile dissidenza era soffocata nel sangue: «Poiché non avevo nessuna intenzione di rimanere inerte ad aspettare il mio assassino, l’esilio diventò l’unica via per continuare a vivere – e a scrivere». Questo clima di terrore e sangue si respira nel romanzo e si rifrange nella pagina, che trasmette un asfissiante senso di claustrofobia, ‘corrispettivo oggettivo’ della dittatura che non permette movimento e pensiero, che schiaccia gli individui in una morsa da cui non è possibile uscire, ma che è possibile allentare nella finzione letteraria.
Tutto, in questo romanzo, si configura infatti come dissacrazione di leggi e regole sociali, religiose, politiche: la lingua, continuamente puntellata dal turpiloquio, i vari personaggi che appaiono e che si connotano come cimici parassitarie assetate di energie vitali, o come cimici pronte a spiare e a spifferare sospetti più o meno fondati; ma soprattutto sono le azioni e i pensieri del protagonista Hassinu a corrodere dall’interno i pilastri su cui le assurde regole social-religiose poggiano, facendo crollare l’intera impalcatura con gli stessi mezzi con cui è stata creata.

Il tempo è come dilatato, non solo perché l’intero romanzo narra tre sole giornate, con una quasi coincidenza tra il tempo della storia e il tempo della narrazione, ma anche perché siamo in presenza di un unico, serrato e totalizzante monologo di Hassinu e del suo Fertàs. Letteralmente Fertàs è ‘il calvo’, concretamente l’organo genitale, al quale Hassinu si rivolge come ad un essere umano e anzi come all’unico amico fidato. La presenza dell’autore è, quindi, assolutamente bandita: tutto si risolve nella voce e nei pensieri del protagonista, intercalati dal dialogo laddove qualche altro personaggio appaia sulla scena. E non c’è alcun orpello narrativo: lo stile è «telegrafico», fatto di «brevi frasi ridotte all’ossatura» (F. LEGGIO, Postfazione, p. 175), iterazioni martellanti che divengono leit-motiv, o si trasformano in gioco fonico e talvolta in vere e proprie allitterazioni onomatopeiche (toctoctoctoctoctoctoc, Ronf, ronf, ronf…).

La scelta di concentrare il romanzo in tre giorni ovviamente non è una casuale: il 27 è un giovedì, giorno di riposo per l’Islam e giorno di prestazioni sessuali a pagamento e di ogni tipo di azione haram per Hassinu e il suo Fertàs.
Il 28 è venerdì, e il venerdì è il giorno sacro musulmano, il giorno della preghiera collettiva nella moschea, della purificazione. E’ anche il giorno in cui le contraddizioni della società musulmana emergono più potentemente, incarnandosi nell’insistita iterazione della formula «SOS fatwa» con cui Hassinu rende lecito l’illecito del giorno prima. Frequentare la bionda Malika è infatti haram, e anche usare un continuo turpiloquio, e la parabolica e i programmi porno del mercoledì sera e bere, fumare, e forse persino mangiare la sciacsciuca prima della preghiera del venerdì… Ma cosa, in fondo, è haram? si chiede spesso Hassinu (come gli altri protagonisti dei romanzi di Lakhous). Molto del romanzo ruota attorno a questa domanda, implicita o esplicita che sia; e molto attorno alla formula «SOS fatwa». La giurisprudenza islamica deriva infatti dall’interpretazione del Corano e della Sunna, e la fatwa è la risposta che un giuresperito fornisce attorno ad un particolare quesito: ma la risposta non è univoca e può variare sulla base del tempo, del luogo, del sesso, ecc. Le fatwa che Hassinu si autofornisce sono condotte con una logica filosofica ferrea che lavora sullo scardinamento del paradosso su cui si fonda l’interpretazione stessa e sulla sua connaturata ambiguità. Alla base di questo gioco testuale e logico c’è dunque, come in tutti i romanzi di Lakhous, una profonda riflessione sulla doppia faccia della verità, che esplode poi nell’ultima giornata.
Il 29 febbraio è il compleanno di Hassinu, che improvvisamente si rende conto di esser passato dai 36 ai 40 anni senza preavviso, di aver quindi raggiunto la sua presunta maturità senza esserne preparato: è solo, vive senza moglie in una casa angusta e con un lavoro che rischia di perdere. E’ tutto ciò che la società musulmana (e non solo) rigetta: è quindi ‘un pirata piccolo piccolo’ e non il pirata che aveva sognato di essere, sulle orme del suo illustre antenato. Ma, più ancora di tutto ciò, Hassinu si sente spodestato della sua stessa vita, risucchiata dalle logiche clientelari di una società dittatoriale e corrotta che nega lo stato di diritto.
Le tre giornate della vita di Hassinu rispecchiano quindi i tre tabù della società arabo-musulmana: la sessualità, la religione e la politica. «Ne viene fuori il ritratto di un’intera generazione e di un paese, l’Algeria, che ha anticipato in qualche modo tutto quello che sta succedendo oggi nel mondo arabo» (LAKHOUS, Introduzione, p. 15).

Un romanzo coraggioso, questo primo di Lakhous, interessante sia per ciò che ci racconta del mondo algerino, sia per lo sperimentalismo narrativo e linguistico (si veda la notevole Postfazione di Leggio), sia perché ci permette di misurare la distanza (o non-distanza) tra il Lakhous di 18 anni fa e quello di oggi, tra l’autore ante e post migrazione. Ritroviamo qui lo «scrittore urbano» di Scontro e Divorzio, la medesima propensione per l’uso dei dialetti (algerini qui, italiani nei successivi) e per una prosa che «dà uno status letterario al linguaggio del quotidiano», orale, parlato (Leggio, p. 177). Notiamo la stessa difficoltà a ‘incasellare’ questo romanzo in uno dei generi tradizionali occidentali, e la commistione che si viene a creare tra romanzo, monologo e racconto, tra satira, commedia e tragedia.
Differente però è il tono di fondo dell’opera, che si tinge, a tratti, di una carica aggressiva ora cinica ora satirica, assorbita nei successivi romanzi in una più posata ironia o in una comicità più schietta e leggera, che difficilmente provoca quel senso di mancanza d’aria che è invece dominante in Le cimici e il pirata. Ma sono toni, questi, perfettamente aderenti al contenuto del romanzo, alle laceranti contraddizioni sociali, politiche, religiose e personali che esso racconta, e che Lakhous viveva dall’interno. Ora l’autore vive e narra le contraddizioni italiane, altrettanto nette e vivide ma, almeno, non represse nel sangue. Anche se il sangue può avere diversi colori…

Autore della recensione: 
Rosanna Morace