Viaggio nel cinema: un’esperienza personale di Soheila Mohebi Javaheri
di Soheila Mohebi Javaheri*
La sveglia suona alle 3:30. Fuori piove. Una pioggia matta che danzando ritmicamente con il vento, bagna le foglie dell'albero di fichi fuori dalla finestra. Ad un tratto come una sorta di lenta dissolvenza, la pioggia si calma e si ferma. Prendo il mio zaino, saluto con lo sguardo Sepanta che dorme tranquillo, abbraccio Razi e parto. Osservo Trento, ancora senza i suoi abitanti e senza macchine. Vorrei vedere bene la prima passante del giorno, viene da lontano, è una donna, dai passi sembra giovane, tiene in mano un ombrello rosso. Ci avviciniamo e le rivolgo il buongiorno. Lei mi guarda per un attimo e passa senza rispondere. Forse è stanca, forse ha passato una notte difficile, non sembra una viaggiatrice. Forse la mattina presto non bisogna salutare i passanti in strada. Le cose belle che sento e vedo e respiro sono tante come il colore rosso di quell'ombrello. I vicoli del centro sono vuoti, mi sembra surreale vedere la città senza i suoi abitanti. Sento che al di là delle finestre, la città sogna con gli occhi chiusi. La stazione è un luogo di movimento, passanti, profumo di caffè, aria di viaggio, binari e suoni di treni in partenza. La notte avevo dormito solo tre ore e sapevo che il sonno avrebbe potuto trascinarmi con sé. Ho impostato la suoneria cinque minuti prima dell’arrivo previsto a Bologna e mi sono abbandonata. Dopo alcune ore vengo svegliata dall’urto di una valigia. Il treno era fermo. Prendo lo zaino e scendo in fretta.
Inizio a pensare al pitching che mi sta aspettando questo pomeriggio. Potrei iniziare con la sinossi che ormai ho in mente:"Una coppia riceve una lettera di sfratto: devono lasciare la casa entro 60 giorni. Sono due rifugiati politici: l’uno afghano, l’altra di origine iraniana. Hanno un figlio di 10 anni, Sepanta, cresciuto in Italia, che non ha nessun ricordo dei suoi nonni, né paterni né materni. Decidono di dedicare questi 60 giorni al loro figlio, per offrirgli un’idea diversa di casa. Intraprendono così un viaggio verso il paese natio della madre ma durante il tragitto un evento imprevisto sconvolge i loro piani." Cosa mi chiederanno? Non lo so, non riesco ad immaginarlo. Sono la prima che dovrà fare il colloquio con i giurati e non ho nessuna misura per capire come agire. Sono l'unica regista non Italiana in "gara", come potrei definirla altrimenti, competizione cinematografica? Ma il film non è ancora finito, bisogna parlare di un film che verrà. Il treno ferma a Firenze e per andare a Perugia occorre prendere un bus che partirà tra due ore. Fino ad oggi Firenze per noi è stata solo una città di transito. Una breve sosta per andare altrove, mentre questa città era proprio una delle ragioni per cui siamo rimasti in Italia. Firenze, città di Michelangelo, Leonardo e del Rinascimento. Intorno alla stazione è pieno di chioschi che vendono scarpe colorate e borse, sono di origine straniera, Bengalesi o forse Pakistani. Arriverò almeno tre ore prima del colloquio e avrò abbastanza tempo per scrivere due righe in un bar e mettere così ordine nella mia mente. Alla stazione di Perugia nessuno conosce né il Cinema Méliès, né ha sentito parlare del Perugia Social Film Festival. Mi viene un dubbio, ma era oggi? Il mio cellulare è scarico e non riesco a verificare, ma per fortuna vedo una locandina del festival appesa ad una bacheca della stazione. Sembra invecchiata, sa di pioggia di vento e sole.
Prendo la minimetro e raggiungo la mia destinazione. Ho ancora due ore, sono seduta in un bar vicino al cinema Méliès. Scrivo e riscrivo le mie impressioni, le mie incognite, che come sempre sono tante. Il bar, che prima sembrava un luogo sperduto nei vicoli di una città antica, si riempie di gente. Tra poco dovrò parlare del nostro film, che tra altro è autobiografico. Ma non basterà raccontarlo, bisognerà anche difenderlo con le parole. Le parole hanno sempre una logica diversa dalle immagini. Ci vuole poco per capire che sono l'unica regista a presentarsi senza produttore. Il mio produttore, coprotagonista del film, non poteva essere presente perché doveva prendersi cura di nostro figlio, anche lui coprotagonista, che non poteva perdere la scuola. La giuria è la stessa del premio Solinas, il che significa che il peso delle parole e le parole in sé, hanno un'importanza cruciale e io tuttora mi sento una nomade della lingua Italiana. La mia presentazione fu un disastro.
È sempre difficile per me parlare, dopo ogni proiezione vorrei nascondermi, o il film ha potuto comunicare oppure no, cosa devo spiegare ancora? Sento il freddo della mancanza di dialogo. E se la forma è contenuto, la forma era quella di X-FACTOR. Dopo la proiezione del trailer, bisognava sedersi con le spalle al pubblico e davanti ai giurati. Mi sembrava assurda questa composizione giurato- centrica, ho perso il filo e sono precipitata a caduta libera. Il Cinema ha il lato del tappeto rosso, del profumo di Chanel e di cibi vegani o al massimo vegetariani. Bisogna avere conoscenze, per poter andare oltre. Ma ci sono dei momenti nei quali la mia indole disordinata si ribella. Durante la cena, mi avvicino ad altri produttori e registi, Stefano Liberti, Enrico Parenti, Francesca Borgetti, Luca Riccardi e Valeria Adilardi. Camminando verso l'albergo parliamo di cinema. Forse è stato quello il momento migliore che abbiamo avuto per conoscerci e relazionarci, grazie al complicato indirizzo dell'albergo che ci ha permesso di perderci nei vicoli di Perugia.
*Soheila Mohebi Javaheri è una regista e sceneggiatrice italo-iraniana