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Giustizia minorile

Il futuro passa dalla voglia di creare occasioni per cambiare

Ricominciamo dai giovani

di Valentina Re

La questione della criminalità minorile smuove aspetti particolarmente sensibili della nostra coscienza perché è legata, da una parte, alla tutela di quei beni ed interessi della vita e dell’uomo che si ritiene che abbiano un valore sociale talmente elevato da poter beneficiare della tutela penale. Dall’altra, gli adolescenti e i giovani rappresentano per eccellenza il collegamento tra la società come è oggi e la società come sarà domani. Questo non solo li rende preziosi per ogni realtà sociale che voglia avere un futuro, ma carica i partecipanti della comunità presente della formazione e tutela di quelli che saranno i membri della collettività futura, perché sappiano esercitare il proprio ruolo in maniera attiva. Il nostro sistema si pone il difficile traguardo di raggiungere un equilibrio tra l’aspetto giudiziario e quello educativo, che non si trovano in posizioni contrastanti ma che dovrebbero ricoprire spazi tra loro in reciproco contatto e dialogo.

Il tema del trattamento giudiziario e penitenziario assume un carattere di specialità nella misura in cui si inserisce all’interno di un contesto in cui i normali valori, parametri, aiuti e punti di riferimento, propri della società in cui il minore è inserito, sembrerebbero aver fallito nell’obiettivo di accompagnare il soggetto nella creazione di un proprio io adulto rispettoso delle regole sociali. Affiancandosi alla famiglia e all’istituzione scolastica, la comunità nella veste dello Stato e, più in particolare, dell’ordinamento giudiziario e penitenziario, assume l’onere e l’onore di supplire a tali mancanze, al fine di rimediarvi, anche attraverso la partecipazione degli enti locali e dei servizi sociali. Il ruolo manifesta vari elementi di complessità nella misura in cui la sanzione penale, per come definita costituzionalmente, deve essere caratterizzata dalla finalità ri-educativa ma si pone all’interno di un fenomeno, il processo, il cui obiettivo specifico è l’accertamento della responsabilità per un fatto che rientra nella fattispecie astratta di reato.

Per lungo tempo si è ritenuto che istruire i delinquenti equivalesse a riadattarli alla società sulla base dell’idea che il comportamento criminale fosse determinato da uno stato di ignoranza. Si consideravano, erroneamente, i concetti di ignoranza e delinquenza come legati tra di loro da un rapporto di causa ed effetto e non, come oggi, caratteri collegati a situazioni di deprivazione familiare e sociale. E, infatti, l’aumento del grado di scolarizzazione che ha caratterizzato la società dagli anni ’50 del secolo scorso in avanti non ha comportato una diminuzione del tasso di criminalità. Quello che emerge è che per l’istruzione non è tanto importante quanto si apprende, ma piuttosto “l’atmosfera di valori” in cui questo avviene e “la natura e il significato dei rapporti umani” che sono gli strumenti di questo apprendimento. Un corretto approccio educativo in un istituto penale minorile dovrebbe basarsi innanzitutto sulla consapevolezza della realtà e delle possibilità che offre.

È evidente che parlare di educazione in un tale contesto significa tenere conto del carico derivante dalla diffidenza dei ragazzi nei confronti dell’istituzione e di chi la rappresenta e dei rischi di strumentalizzazione che ne derivano. Occorre inoltre ricordare che se si considera il processo educativo come la possibilità, rivolta al minore, di acquisire strumenti che gli permettano di vivere degnamente la propria e l’altrui libertà, la carcerazione comporta la mancanza di auto-gestione e autodeterminazione, e quindi la (quasi) impossibilità di esercitare scelte che insegnino a vivere in libertà. L’istituto penale per i minorenni può essere educativo nella misura in cui è capace di contenere il più possibile le dinamiche tipicamente carcerarie, riuscendo a combinare elementi di attenzione, ascolto, espressione e promozione umana.

  In ambito minorile, l’inadeguatezza delle istituzioni penali non dipende tanto dalla legislazione e dalle prassi amministrative   considerate isolatamente, quanto dalle interazioni fra queste e la realtà sociale che sembra profondamente distaccata.    

 Dall’osservazione dei ragazzi che entrano negli istituti è possibile notare come il processo di scolarizzazione dei minori è  spesso legato alla loro storia giudiziaria e detentiva. Essi hanno solitamente pochissime conoscenze, anche linguistiche e  sono inseriti negli istituti all’interno di curricula scolastici solo teoricamente corrispondenti a quelli esterni. Questo  inserimento avviene sulla base delle informazioni che i minori stessi forniscono circa il livello di istruzione che hanno  raggiunto, in caso di minori stranieri nel loro paese di origine, oppure sulla base di una scelta compiuta dagli operatori. La  preoccupazione per lo scarso capitale culturale dei minori detenuti, in special modo stranieri, emerge molto raramente nei f  fascicoli e appare subordinata all’interesse per il loro stato d’animo e per il loro percorso “trattamentale” interno.

 Lo strumento della rieducazione, in special modo a fonte di statistiche che sottolineano un sostanziale aumento del numero  di detenuti minori stranieri, soprattutto negli istituti del Nord Italia, assume ancora di più la funzione di riequilibrio di  situazioni di svantaggio. Questo anche davanti all’evidenza che, per esempio, i minori stranieri incorrono in maggiori  difficoltà all’entrata nel circuito delle alternative alla pena detentiva, pregiudicata dalla labilità di riferimenti, quali l’affidabilità  sociale e il radicamento sul territorio, considerati aspetti particolarmente incisivi nella  valutazione della “pericolosità sociale” precedente l’eventuale attivazione dei percorsi propri dei servizi sociali.

Emerge da  alcune interessanti ricerche come, nella maggior parte dei casi, in special modo al centro e al nord del nostro Paese, il  carcere sia una soluzione che finisce per essere riservata ai minori stranieri o appartenenti alle minoranze rom e sinti.  Questa tendenza trova spiegazione nella complessità delle situazioni concrete di questi ragazzi che spesso non godono  del supporto di una famiglia ritenuta idonea alla concessione di misure diverse dalla detenzione. Tale elemento sconvolge  non solo per l’esplicita discriminazione che comporta tra minori italiani e stranieri, ma anche, e soprattutto, perché sembra  travolgere e dimenticare i principi che hanno ispirato il co. 3 dell’art. 27 della nostra Costituzione, secondo cui la tensione  educativa, che dovrebbe caratterizzare la pena, risulta ancora più profonda nel caso di un minore autore di reato. Ancora,  appare stravolto, a discapito dei soggetti stranieri, il principio di extrema ratio che dovrebbe caratterizzare l’utilizzo della  sanzione carceraria, in particolare per i minori. La difficoltà con cui questi soggetti possono accedere alle alternative  previste nel nostro ordinamento rispetto alla detenzione carceraria evidenzia le lacune strutturali del sistema, derivanti in  primis dalla mancanza di adeguate risorse economiche e dal patologico ritardo del legislatore.

L’intento è quello di evitare  un effetto stigmatizzante della pena detentiva affinché questa non finisca per ridursi ad un mero etichettamento di “cittadini  buoni” e “cittadini cattivi”. E questo, anche in risposta all’emergenza per cui la maggior parte dei minori che finisce negli IPM è già entrata nel circuito penale ed è recidiva. 

Nel quadro così debolmente tratteggiato, particolarmente marcata si staglia la necessità che la rieducazione, declinata nei vari strumenti di educazione, istruzione, formazione ed attività ricreative, assurga ad un ruolo sempre maggiore. Da una parte al fine di garantire quell’evoluzione fisica e psicologica, propria della fase adolescenziale di ogni individuo, che potrebbe subire un’incidenza negativa dal contatto con la realtà giudiziaria; dall’altra, al fine di supplire a tutte quelle carenze, in virtù del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della nostra Costituzione, che caratterizzano alcune categorie più deboli. Nei confronti dei giovani, la preferenza dello scopo risocializzante della sanzione rispetto a quello punitivo rispecchia la volontà del legislatore di impedire la punizione di soggetti in crescita, pieni di risorse positive, e di potenzialità che devono soltanto essere portate alla luce, rendendoli al contempo coscienti e responsabili dei fatti commessi.

INGRESSO MINORI IN IPM (i dati sono consultabili su www.giustizia.it)

 

“Servizi della giustizia minorile - 15 dicembre 2016” è consultabile su www.giustizia.it