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Corsi di italiano

INFORMAZIONI PER SVOLGERE VOLONTARIATO 

Per informazioni scrivere a: info@ilgiocodeglispecchi.org

 

 

CORSI SERALI

Ogni martedi e giovedi dalle 18.30 alle 20.00 dal 17 ottobre.

Le iscrizioni saranno aperte il 10 ottobre e 12 ottobre , dalle 18.30 alle 20.00.

Sede: Oratorio S.Maria Maggiore , via della Prepositura 35

 

CORSI PER DONNE CON SERVIZIO DI BABYSITTING

Dal 10 ottobre, ogni martedi e giovedi mattina presso la Circoscrizione S.Giuseppe/Santa Chiara, via  Martini 4.

I corsi donne 2023-24 sono finanziati dalla Fondazione Gino Lunelli, dalla Provincia di Trento e dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

 

 

CONVERSAZIONI

La domenica dalle 18.00 alle 20.00 in Via Giusti 11

In collaborazione con Mediterranea Trento.

 

TUTTI I CORSI DELLA RETE ITALIANO A TRENTO:

 

 

RINGRAZIAMENTI
 
I corsi di italiano per stranieri e tutte le attività culturali del Gioco degli Specchi sono possibili grazie al lavoro di esperti e professionisti che collaborano con noi e garantiscono la qualità delle nostre proposte, ma anche per la fattiva condivisione dei volontari dell'associazione, che provvedono anche a necessità minime e poco gratificanti.
A tutti un vivissimo e pubblico GRAZIE.
 
L'anno scolastico 2018/2019 è stato realizzato con fondi OTTO PER MILLE della Chiesa Valdese.
 

Dal 2019/2020 i corsi sono realizzati con i contributi del Comune di Trento e con bandi finanziati dalla Provincia di Trento e dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

 
Ringraziamo per le sedi utilizzate in questi anni:
- Cinformi
- Circoscrizione San Giuseppe/Santa Chiara
- (Casa Baldè) Associazione Amici dei Senza Tetto di Trento ONLUS
- Centro Alisei
- Oratorio S.Antonio
 
 
RICORDI...

Trento, 6 Luglio 2006

Oggi Jasleene è arrivata spingendo il passeggino. Sam, suo figlio, ha poco più di un anno e due occhi vispi e penetranti sempre in movimento. Mi avvicino e lo prendo in braccio, mentre Jasleene, elegantissima nelle sue stoffe colorate, saluta calorosamente le sue amiche Sutima, Marta e Zahaf. Sam mi guarda; ha i capelli, ricci e lunghi, legati con un piccolo elastico all’altezza della nuca. Goffamente lo sollevo per aria – chissà se mi riconosce? Non viene spesso, il più delle volte resta a casa con il papà, un ingegnere dalla barba lunghissima e dall’aspetto signorile.
Ma quando la mamma lo porta con sé ne sono sempre felice. Sam è bellissimo, lo accarezzo e passo le mie dita sulla sua mano, liscia e paffuta. Ride, si agita, lo lascio girare liberamente mentre saluta tutti muovendo il braccio.

Lentamente il salone si riempie, ci sono i nuovi iscritti da destinare ai diversi gruppi, e tutto intorno è un accavallarsi di voci, un’allegra confusione. Jasleene solleva suo figlio e lo rimette nel passeggino; si china su di lui e prima di posargli un bacio sulla fronte gli raccomanda di stare in silenzio: la lezione sta per iniziare.

Pyn mi cerca con lo sguardo, ma ora non posso aiutarla. So cosa vuole, è iscritta all’Università, a
Lettere, e per esercitarsi scrive piccoli temi; solitamente me li fa leggere e correggere. “Sai, Pyn, puoi farlo correggere anche alla tua insegnante di italiano” le dico quando mi sento più pigro del solito. Ma alla fine cedo sempre e mi diverto a fare il maestro, con lei al mio fianco che si vergogna dei suoi errori e dice che non imparerà mai la nostra lingua. “Sei bravissima, Pyn”, ma la sua bocca si apre raramente in un sorriso. Arrossisce, scuote la testa, mi mette in mano tre caramelle e si infila in un’aula, dove la lezione è cominciata da qualche minuto.

Più tardi, scorro la lista degli iscritti nel tentativo di ricavarne una statistica; faccio un immaginario giro del mondo leggendone le provenienze, Marocco, Bolivia, Kirghizistan, Giappone, Guinea, Thailandia, Perù, Nigeria, Pakistan, Stati Uniti...e collego, cerco di collegare i nomi ai volti, i volti alle nazionalità. Mi convinco che nessuna statistica, nessun dato oggettivo possa descrivere in maniera completa e soddisfacente ciò che accade qui. Occorre guardarle negli occhi, le persone, e parlarci, per capire una volta ancora che la città, le sue strade ed i suo palazzi appartengono ora ad un “noi” un po’ più allargato, e quello che si può osservare in queste aule è un piccolo e felice esempio di convivenza. Occorre ascoltare queste lezioni, portate avanti con amore e passione, per convincersi che quello che i volontari di questa associazione fanno non può essere quantificato né incasellato nel tradizionale rapporto insegnante-alunno.
È molto, molto di più. Me lo suggeriscono i sorrisi di quanti frequentano i corsi, le risate all’uscita dalle aule, i chilometri che alcuni di loro affrontano per raggiungere la scuola, le amicizie che nascono, l’umiltà e la forza con le quali ricominciano tutto daccapo, un nuovo alfabeto, nuovi suoni, nuovi compagni di avventura, nuove città. Già, la città. Chissà cosa pensano della città? Lo chiedo sempre quando mi capita di sostituire qualche insegnante e mi trovo davanti a dieci-venti persone che provengono dai quattro angoli del pianeta.

Dopotutto anch’io non sono di questa città, anch’io mi sono costruito qui una mia dimensione. “Bella”. “Bellissima” mi sento rispondere. “Brave persone” mi dice una signora rumena con le lacrime agli occhi. Mi spiega, faticosamente, che dopo aver lasciato il suo paese ha sempre vissuto nella paura, nell’incertezza. Ora ha trovato uno spicchio di felicità, nell’appartamento nel quale vive, nella scuola che frequenta, nelle persone che incontra. È una città che li ha accolti a braccia aperte? Non lo so, non tocca a me stabilirlo. Le storie che ho ascoltato sono spesso contraddittorie, episodi di xenofobia si alternano a momenti di autentica solidarietà ed il confine tra indifferenza e piacere è tanto vago quanto quello tra indifferenza e fastidio.

Io osservo, ascolto e parlo. Vedo occhi, prima timidi e spaesati, muoversi ora con serenità e splendere con una luce diversa. Vedo la fiducia crescere in loro e capisco che questi incontri settimanali sono per molti un appuntamento irrinunciabile, un solido punto di riferimento nel caos della burocrazia e dei permessi di soggiorno. Un riparo dalla solitudine, per alcuni. Un necessario strumento di apprendimento per altri. In un anno ho visto più di seicento persone recarsi alle conversazioni e ai corsi di italiano; con tutti ho scambiato almeno una parola, con molti ho parlato a lungo e ne ho conosciuto la storia. Ho potuto assistere al compimento di progetti migratori e al fallimento di altri. Ed è sempre con estrema tristezza e dispiacere che vivo questi momenti, in cui qualcuno lascia i corsi e decide di lasciare la città, o è costretto a farlo, per motivi legali od economici. Certo, tutto rientra nel grande gioco dei flussi globali, di persone e di merci, di capitali e di culture. Tutto è già previsto dalle teorie sui movimenti migratori: c’è chi ce la fa e chi no. Ma ora quanto appreso sui libri e sui banchi dell’università mi sembra così freddo e cinico che non mi basta più. Non mi basta più sapere che c’è e ci sarà sempre qualcuno che dovrà tornare sui propri passi, magari dopo delusioni e soprusi, perché quel “qualcuno” ha ora un volto, una voce e un posto nei miei ricordi. E distaccarmene è sempre più difficile.

Chiedo sempre a tutti di presentarsi, di scandire il proprio nome e la propria provenienza, mentre siedo dietro la cattedra, con la lavagna alle mie spalle e con l’energia che l’inaspettato e per me inusuale ruolo di insegnante mi regala. Fin da piccolo sono convinto che potersi sedere davanti alla classe silenziosamente in ascolto sia un qualcosa di magico e ricco di fascino. Osservare Assan o Amarildo o Charlene che scrivono sui propri quaderni ciò che io spiego, e vederli confrontarsi, suggerirsi e correggersi a vicenda è, per me, una sensazione bellissima e assieme un’iniezione di fiducia. Io domando, loro rispondono. Io parlo, loro ascoltano. Ma il gioco è facilmente ribaltabile.

“Tu chi sei?” mi chiede una ragazza bosniaca sorridendo. Chi sono? Perché sono qua tra di loro? È un dovere o un piacere ciò che faccio? Lo farò per sempre, per professione?
“Beh, io sono uno studente universitario, italiano...mi piace stare qui con voi, spero che anche grazie al mio impegno la vostra avventura in questa città sia positiva. Voglio che parliate, senza paura; voglio trasmettervi qualcosa...”.
L’incessante costruzione della mia persona passa anche attraverso questi momenti, queste domande, questi volti. Torno a casa e porto con me gli interrogativi. In un anno ne ho accumulati molti, ad alcuni ho dato una risposta, ad altri no e la ricerca continua. È questo ciò che mi fa andare avanti, oltre gli ostacoli. Ed è questo che fa andare avanti i “nostri” studenti: la ricerca di un posto nel mondo, definitivo o temporaneo; la ricerca di un’identità, multipla o ibrida; la ricerca di uno strumento per comunicare.

Ora la lezione è finita. È un coro di “grazie” quello che mi rivolgono gli studenti all’uscita dall’aula. Alcuni si avvicinano e mi stringono la mano, è un rito che si ripete ad ogni incontro. Mehmet mi aspetta sull’uscio della porta, stringe fra le dita il quaderno ed il suo preziosissimo libro di grammatica pakistana-italiana. Mi guarda con due occhi nerissimi e con dolcezza e preoccupazione mi chiede “Quando chiude la scuola?”
“Ad agosto, per qualche settimana” gli rispondo.
“OK. Ma posso venire anche quando l’italiano lo saprò benissimo?”

Andrea Petrella