Dubravka Ugresić racconta la condizione di chi è straniero e in Jugoslavia e in Olanda. L'esilio di chi viene dalla ex Jugoslavia è particolare, che sia voluto, scelto o coatto, ha un peso in più rispetto all'esilio di altri, è ancora peggio del senso di sradicamento, nostalgia, solitudine che chiunque prova lontano dalla terra in cui è nato. Per chi viene da un mondo che si è dissolto in una guerra fratricida c'è, in aggiunta, la difficoltà e il dolore di ricostruire una identità andata in pezzi già nel suo paese, frantumata, a partire dalla lingua stessa, violentata e scissa.
Dice bene la biografia di Veličković che si legge nella quarta di Balkan pin-up: «Una delle voci più coraggiose dell’élite intellettuale serba».
Prestami le ali è arrivato in libreria. Nella sua ultima fatica, Igiaba Scego scrive un inno alla vita. Attraverso un linguaggio snello e limpido, fatto di immagini che si rincorrono, l’autrice veste i panni di un moderno Fedro che lascia i vicoletti della Roma Augustea per camminare tra le vie di una Venezia di fine Settecento. Scego presta la voce al mondo degli animali che incarnano vizi e virtù degli uomini.
Anche in questo testo il metodo della scrittrice è lo stesso di sempre: disporsi all'ascolto, prendere appunti, raccogliere i racconti e le parole di decine di uomini e donne. È la sua capacità di ascolto il fondamento del suo lavoro, la sua empatia che spinge le persone a confidare i segreti più dolorosi, ad affidarli a chi li possa consacrare con la sua penna.
Quello che si narra non è un prodotto della fantasia e nemmeno una semplice indagine giornalistica.
25 dicembre 1996: nel Canale di Sicilia 283 migranti muoiono mentre vengono trasferiti da una vecchia imbarcazione su un peschereccio che avrebbe dovuto portarli a terra. Vengono dall'India, dal Pakistan dallo Sri Lanka, i parenti li cercano disperatamente, ma nessuno se ne preoccupa, nemmeno i pescatori nelle cui reti restano impigliati i loro cadaveri.
Il libro parla di congedi (ovvio il riferimento al gergo militare, anche se qui la parola va intesa nel senso più ampio): “Alcuni se ne vanno, altri muoiono, altri ancora, frastornati dalla terribile atmosfera che li circonda, si rifugiano nell’alcol, nella follia, nell’isolamento.” È il congedo, imposto, da un mondo in cui si è vissuti fino ad allora, con amicizie e simpatie che certo prescindevano dal gruppo etnico di appartenenza.
Un’improvvisa catastrofe naturale cambia per sempre l’aspetto della millenaria città del Cairo. Terremoti, tempeste di sabbia, virus e malattie devastano la popolazione. Bassàm Bahgat è stato ingaggiato per produrre documentari di propaganda per la “Società degli Urbanisti”, un’organizzazione segreta (capillarmente estesa nel mondo) dedita alla riprogettazione del Cairo. Il documentarista non sa che il sottile intento della Società è quello di distruggere definitivamente la città creandone una nuova, dalla forma futuristica e commerciale.
La pubblicazione di questo romanzo nel 1966 fu un evento letterario importante nella Jugoslavia di quegli anni, venne subito riconosciuto come un capolavoro e rese celebre il suo autore. Il testo nasceva da due decenni di dolorosa gestazione che portava a trasporre vicende biografiche in tempi, ambienti, situazioni lontane, per arrivare a questa profonda riflessione sul destino dell'uomo, sul suo ruolo nel mondo.
Kaydara è un racconto didattico che fa parte dell'insegnamento tradizionale dei fulbe dell'ansa del Niger in Mali. Narra il viaggio di tre giovani che devono attraversare un mondo sotterraneo e misterioso, il paese dei nani, il paese della penombra cioè il mondo dei significati nascosti dietro l'apparenza delle cose, per raggiungere la dimora di Kaydara, il dio dell'oro e della conoscenza. In undici differenti tappe affrontano situazioni e animali ciascuno dei quali è un simbolo da decifrare e un insegnamento da applicare nella vita quotidiana.